Il destino dei nostri rifiuti: è solo immondizia?

di Daniele Frosini



Ogni giorno, da anni, sentiamo notizie su quello che succede ai rifiuti. In particolare la ben triste nota dell’emergenza rifiuti risuona in continuazione sui media per i corollari che essa provoca. Basti pensare ai discorsi politici, alle crude immagini di incendi e di discariche abusive, ai disastri ambientali ed ai danneggiamenti del ricco patrimonio naturale e culturale del paese.
Le azioni attuate per fronteggiare il problema sono molto lente e complicate dal fatto che in Italia c’è poca chiarezza sul tema. La poca chiarezza riflette una generale mancanza di conoscenza della materia, e come ogni cosa ignota anche i rifiuti incutono timore nella popolazione.
L’avanzamento tecnologico, negli anni, ha permesso la costruzione di impianti di trattamento che generano un impatto ambientale pressoché trascurabile rispetto a 20-30 anni fa. Tuttavia, la generale diffidenza, spesso cavalcata anche dalle istituzioni politiche che effettuano (ed hanno effettuato) scelte poco lungimiranti, fa sì che l’uscita da una situazione di emergenza tardi ad avvenire.
Proviamo ad analizzare la questione.

Uno sguardo globale sui rifiuti urbani

Un esercizio molto utile per entrare nell’ottica delle quantità di rifiuti  in gioco, è provare a fare dei semplici calcoli. Secondo il rapporto Eurostat “Energy, transport and environment indicators” del 2011, in Europa nel 2009 sono stati prodotti 2,67 miliardi di tonnellate (2,67×1012 kg) di rifiuti. Di questi, circa 256 milioni erano i cosiddetti rifiuti “urbani”, cioè i normali scarti quotidiani. Facendo un calcolo approssimativo, considerando una popolazione di 750 milioni di persone, ciascuno di noi ha prodotto la bellezza di 350 kg di rifiuti. Adesso il numero diventa sicuramente più familiare da gestire, in media 350 kg a testa ogni anno.
La soglia di “emergenza” scatta quando si riesce a smaltire meno del 30% dei rifiuti prodotti in un certo territorio: per fare un esempio, un comune di 90.000 abitanti dovrà sottoporre a smaltimento almeno 9500 tonnellate per non entrare nel pericoloso loop dello stato di emergenza.
ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) nel 2017 ha redatto un rapporto sui rifiuti urbani in cui si riportano i dati sulle percentuali della raccolta differenziata (RD) in Italia: la media nazionale della RD è circa il 50% del totale della produzione dei rifiuti; ma nei comuni con più di 200.000 abitanti siamo addirittura sotto il 40%. Questo significa che alla fine del flusso della globalità dei rifiuti, il recupero della materia riguarda solamente il 26%, una parte analoga (25%) va in discarica, il 20% è destinato ad un trattamento biologico, il 18% è incenerito, il 2% è coincenerito. Il rimanente 10% incontra trattamenti secondari. E’ chiaro quindi che la catena dei rifiuti termina sempre in due grandi filiere: quella della discarica e quella dell’inceneritore.

La discarica

La discarica è facilmente immaginabile per chiunque: è una sorta di enorme magazzino in cui vengono accumulati gli scarti fino a che c’è spazio disponibile. Quando questo termina, si creano altri spazi scavando montagne o interrando i rifiuti per poi ricoprirli con gli stessi materiali scavati in precedenza. E’ come spolverare in casa e nascondere la polvere sotto il tappeto. Rimedio semplice ma dannosissimo. Il cuore della discarica è letteralmente una bomba d’inquinamento. Ciò che è sepolto va incontro a reazioni di trasformazione nel corso del tempo, sviluppando grandi quantità di due potenti gas serra come l’anidride carbonica (CO2) ed il metano (CH4), oltre all’ammoniaca (NH3, precursore del protossido di azoto, N2O, altro potentissimo gas ad effetto serra). Oltre alle emissioni di gas serra si hanno anche esalazioni di composti organici volatili (COV), alcuni dei quali ad elevato potenziale odorigeno, responsabili di disagi e di odori sgradevoli per la popolazione, specialmente in determinate condizioni atmosferiche (inversione termica, direzione “sfavorevole” del vento, grande umidità). Gli effetti sull’atmosfera vanno sommati a quelli sull’idrosfera, perché i percolati delle discariche, contaminati dagli inquinanti presenti nei rifiuti, provocano un inquinamento anche delle acque superficiali e sotterranee. Il territorio intorno ad una discarica sarà, quindi, perennemente compromesso ed inutilizzabile e, inoltre, un eventuale incendio potrebbe provocare contaminazioni chimiche nel raggio di chilometri. Ogni rogo incontrollato di rifiuti provoca, in piccolo, quello che avviene in conseguenza di grandi incidenti in discariche (per esempio quella del Cassero a Pistoia nel 2016: http://www.ansa.it/toscana/notizie/2016/07/04/incendi-rogo-in-discarica-nel-pistoiese_3c6d15d2-ee54-46a1-98e4-a418f5778e41.html) o in centri di trattamento dei rifiuti (come a Macerata: http://www.ansa.it/marche/notizie/2018/07/06/incendio-in-azienda-rifiuti-macerata_55ed5012-8638-4a9c-8592-3427a38338e6.html).

L’incenerimento

Quando si parla di combustioni, dobbiamo far riferimento al principio di conservazione della massa e dell’energia enunciabile con la famosa frase “niente si crea, niente si distrugge, ma tutto si trasforma”: nel nostro caso, il rifiuto è utilizzato come combustibile ed è ridotto in cenere, con tanta energia sviluppata sotto forma di calore. Se questo calore viene sfruttato per produrre energia elettrica, come avviene in una qualsiasi centrale termoelettrica che brucia combustibile fossile, si parla di “termovalorizzazione”, da qui l’uso comune di parlare di inceneritori e di termovalorizzatori quasi indistintamente. Gli impianti moderni fanno di più perché, oltre alla produzione di energia elettrica, viene recuperata anche una gran parte dell’energia termica (normalmente dispersa nell’ambiente) dei gas, del vapore e dell’acqua calda presenti nell’impianto: ecco che si parla di “cogenerazione”. Si può sfruttare l’energia termica in tantissimi modi, per esempio fornendo acqua calda per usi civili come il riscaldamento di edifici pubblici, abitazioni private o centri commerciali; oppure destinarla a scopi industriali nei processi caratterizzati dalla necessità di fonti di calore (industria della plastica, cartiere, cementifici e così via). Ulteriori miglioramenti tecnologici consentono di avere a disposizione impianti di terza generazione, con una perdita di energia termica ancora minore e con impieghi sempre più vasti. Chi volesse approfondire i dettagli ingegneristici può fare una ricerca sulla cosiddetta “trigenerazione”.
In Italia, nel 2017, il fabbisogno di energia elettrica è stato soddisfatto per più del 10% da importazioni dall’estero, tendenza in aumento a causa del sempre crescente consumo di elettricità nel paese (dati tratti dal Bilancio Elettrico Italia 2017 a cura dell’Ufficio Statistico di Terna).
L’energia elettrica, attualmente, è prodotta per la maggior parte da combustibili fossili, con frazioni sempre crescenti (per fortuna) di fonti rinnovabili, ma è innegabile che sarà impossibile affrancarsi dal petrolio, dal gas naturale e dal carbone nel breve termine. Riuscire a produrre una frazione di energia dai rifiuti, cioè da prodotti che sarebbero destinati, ad oggi, alla compartimentazione in discarica, vorrebbe dire utilizzare meno materia prima fossile e ritrovarsi meno prodotti di scarto. Con la cogenerazione, inoltre, se  venisse fornita acqua calda a 2000 famiglie mediante un moderno impianto, verrebbe risparmiata l’accensione di 2000 caldaie, con un computo finale di ossidi di azoto, anidride carbonica e polveri in atmosfera nettamente inferiore; con un ulteriore risparmio di migliaia di km di movimentazione dei rifiuti all’interno e al di fuori dei nostri confini. Perché? Perché l’Italia esporta molti scarti all’estero (nord Europa sopratutto), sia per accordi stipulati negli anni sia per fronteggiare i periodi di vera e propria emergenza, lasciando letteralmente partire materiale che verrà utilizzato altrove per produrre energia. Il trasporto avviene su gomma, navi e treni, che a loro volta hanno un impatto ambientale non certo trascurabile. Questo è chiaramente un paradosso.
Ben vengano, inoltre, tutte le proposte di attuazione di strategie per ottimizzare la differenziazione, il recupero e la diminuzione della produzione di rifiuti; tuttavia, ad oggi, anche nei centri più virtuosi c’è sempre una frazione che è destinata ad essere smaltita; l’utopia del cosiddetto “zero waste” è destinata a rimanere tale per anni, ma nel frattempo il mondo va avanti e dobbiamo fronteggiare in qualche maniera i problemi che sorgono nell’immediato.

Cosa avviene in un inceneritore?

Incenerire un rifiuto in un impianto apposito è ben diverso da quello che avviene durante una combustione accidentale o casalinga. Innanzi tutto negli impianti sono mantenute temperature altissime (superiori agli 850°C) all’interno della camera di combustione, per evitare la formazione di composti tossici come le diossine. Qualora la temperatura si abbassasse, entrerebbero in funzione bruciatori ausiliari a metano per mantenere sempre l’impianto a regime termico. Il processo di combustione lascia un residuo, le ceneri, molto meno voluminoso del rifiuto in ingresso e con una massa mediamente inferiore del 70%. Da una tonnellata di rifiuto otteniamo quindi circa 300kg di ceneri, destinate adesso ad uno smaltimento in discariche controllate. Le polveri emesse nella combustione sono intercettate in più stadi di filtrazione ed i gas sono sottoposti a lavaggio. In atmosfera sono rilasciate, oltre al vapore acqueo, quantità di inquinanti infinitesime rispetto a quello che si avrebbe se bruciassimo petrolio per ottenere la medesima quantità di energia elettrica e termica. Per avere un’idea di cosa viene emesso in atmosfera in un moderno impianto  visitate il sito

Le migliorie dal punto di vista tecnologico e la grande attenzione nei controlli hanno fatto letteralmente crollare a livelli trascurabili l’impatto dell’incenerimento nell’emissione di diossine su scala nazionale (dal 19% nel 1990 siamo passati a meno dello 0,02%, di contro al 4,4% dell’impatto veicolare per esempio), per gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) dal 1990 ad oggi c’è stato un calo dallo 0,14% allo 0,04% e così via per una lunga serie di inquinanti (dati facilmente consultabili negli archivi forniti da ISPRA).
Le emissioni dei camini sono controllate, ovviamente, in continuo ed in media si assestano su valori di IPA, diossine, metalli e composti organici decine o centinaia di volte inferiori a quelli imposti dai limiti di legge. La qualità dell’aria intorno agli impianti è, ed è stata, monitorata a lungo; spesso non si riesce ad attribuire alcun tipo di impatto ad un inceneritore mentre i maggiori responsabili d’inquinamento sono rappresentati dal traffico veicolare, dagli impianti di riscaldamento e dalle combustioni di biomassa (caminetti, stufe, incendi boschivi, fuochi, barbecue). Per maggiori informazioni, sul sito www.airuse.it si possono trovare dati relativi a studi condotti in varie città dell’area mediterranea.
Per dati su scala continentale, nello “European Union emission inventory report 1990-2016” dell’EEA (European Environmental Agency), sono passati in rassegna i vari contributi alle emissioni in atmosfera, analizzando le tendenze interannuali e puntualizzando su ogni specifica categoria di inquinante. https://www.eea.europa.eu/publications/european-union-emission-inventory-report-1990-2016


Fonti
  1. ·         Energy, transport and environment indicators, 2011 edition, Eurostat
  2.       Le emissioni degli inceneritori di ultima generazione, 2011, “Quaderni di Moniter” Collana di documentazione a cura di Regione Emilia-Romagna
  3. ·         Rapporto rifiuti urbani, edizione 2017, ISPRA
  4. ·         Bilancio Elettrico Italia 2017, Ufficio Statistico di Terna
  5. ·         Serie storiche delle emissione nazionali SNAP 1980-2016, Sinanet, ISPRA
  6.        European Union emission inventory report 1990-2016,  No 6/2018, EEA Re

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